
E’ bene che faccia riflettere, discutere, creare confronto.
Che porti anche solo una persona a fare una scelta più consapevole.
Senza che ci sia da parte mia la pretesa che ciò che IO ho vissuto sia ciò che TUTTI vivono. Per ALCUNI l’esperienza è diversa, per ALTRI è uguale alla mia o almeno simile. La differenza tra me e questi altri è che la MIA esperienza è diventata pubblica e non più sussurrata nell’intimità e protezione delle mura domestiche. La differenza è che io non posso e non voglio più ritrattare ciò che ho messo nero su bianco.
Cosa divide dunque le coscienze? Sono i paragrafi, le righe che di tanto in tanto toccano un argomento scomodo: il rapporto medico paziente. A riguardo sono molto critica, lo ammetto, ma continuerò ad esserlo dentro e fuori le pagine scritte, perché, perché questa è la mia verità e riconosco la libertà altrui di contestarla, confutarla, ribaltarla con lo stesso rispetto, però, che chiedo loro per la mia. Tolti i ciarlatani, per me ci sono medici professionisti e medici professionisti umani. Quelli che del paziente non fanno solo un caso di studio, ma un caso umano. Quelli che a parità di cure e metodologie, trovano anche lo spazio dentro se stessi per rapportarsi al paziente come persona e non come caso clinico, come numero statistico. Uso un paradosso, ma serve a sintetizzare: una carezza, solo una carezza a volte solleva l’animo e fa sentire meno soli. Quella stessa carezza rimette in moto la fiducia, senza la quale il rapporto medico paziente non ha nessun valore né beneficio. Chi deve creare questa fiducia? Entrambe le parti, naturalmente, ma una più dell’altra: il medico ha la conoscenza che noi pazienti non abbiamo. Lui ha l’esperienza che noi non abbiamo. Soprattutto, lui ha scelto di essere medico, noi no di diventare pazienti. Non dico che sia facile, ma si parte dall’umiltà e si impara anche ascoltando il paziente, ciò di cui lui ha bisogno. E’ lì che scatta la comprensione e la collaborazione anche da parte nostra. Ed invece troppo spesso c’è presunzione, onnipotenza, chiusura e speculazione. C’è paura di perdere il potere.Di questo ho parlato giorni fa con un operatore del Centro oncologico di Riferimento di Aviano, Cro. Mi dice: “E’ arrivata da me una signora che ha letto il tuo libro e dice che si è spaventata”. Perché?Chiedo, immaginandomi già la risposta. “Perché descrivi il nostro ospedale come una struttura poco accogliente”. Ok, accetto la critica o l’interpretazione che dir si voglia. E mi fermo a riflettere. Davvero si legge questo in quello che ho scritto? Si, pare proprio di si. Secondo me non è un problema di accoglienza, né tanto meno di efficienza: per me è un problema di approccio al paziente. Non basta la cortesia, la gentilezza e le molte attività di volontariato: si respira nell’aria la filosofia di un ambiente. A quella mi riferisco, è quella che lamento. Però accetto e aggiungo: è soggettivo l’incontro tra medico e paziente. Io racconto ciò che ho vissuto io per come io sono fatta e per ciò che per me è importante. Non discuto la bravura scientifica, ma contesto, nel mio caso, approcci troppo duri, troppo estremi e definitivi. Ad una persona che ha resistito alla malattia non solo con la chemio, ma soprattutto con la positività della mente, bhe’, concedeteglielo…
Cosa divide dunque le coscienze? Sono i paragrafi, le righe che di tanto in tanto toccano un argomento scomodo: il rapporto medico paziente. A riguardo sono molto critica, lo ammetto, ma continuerò ad esserlo dentro e fuori le pagine scritte, perché, perché questa è la mia verità e riconosco la libertà altrui di contestarla, confutarla, ribaltarla con lo stesso rispetto, però, che chiedo loro per la mia. Tolti i ciarlatani, per me ci sono medici professionisti e medici professionisti umani. Quelli che del paziente non fanno solo un caso di studio, ma un caso umano. Quelli che a parità di cure e metodologie, trovano anche lo spazio dentro se stessi per rapportarsi al paziente come persona e non come caso clinico, come numero statistico. Uso un paradosso, ma serve a sintetizzare: una carezza, solo una carezza a volte solleva l’animo e fa sentire meno soli. Quella stessa carezza rimette in moto la fiducia, senza la quale il rapporto medico paziente non ha nessun valore né beneficio. Chi deve creare questa fiducia? Entrambe le parti, naturalmente, ma una più dell’altra: il medico ha la conoscenza che noi pazienti non abbiamo. Lui ha l’esperienza che noi non abbiamo. Soprattutto, lui ha scelto di essere medico, noi no di diventare pazienti. Non dico che sia facile, ma si parte dall’umiltà e si impara anche ascoltando il paziente, ciò di cui lui ha bisogno. E’ lì che scatta la comprensione e la collaborazione anche da parte nostra. Ed invece troppo spesso c’è presunzione, onnipotenza, chiusura e speculazione. C’è paura di perdere il potere.Di questo ho parlato giorni fa con un operatore del Centro oncologico di Riferimento di Aviano, Cro. Mi dice: “E’ arrivata da me una signora che ha letto il tuo libro e dice che si è spaventata”. Perché?Chiedo, immaginandomi già la risposta. “Perché descrivi il nostro ospedale come una struttura poco accogliente”. Ok, accetto la critica o l’interpretazione che dir si voglia. E mi fermo a riflettere. Davvero si legge questo in quello che ho scritto? Si, pare proprio di si. Secondo me non è un problema di accoglienza, né tanto meno di efficienza: per me è un problema di approccio al paziente. Non basta la cortesia, la gentilezza e le molte attività di volontariato: si respira nell’aria la filosofia di un ambiente. A quella mi riferisco, è quella che lamento. Però accetto e aggiungo: è soggettivo l’incontro tra medico e paziente. Io racconto ciò che ho vissuto io per come io sono fatta e per ciò che per me è importante. Non discuto la bravura scientifica, ma contesto, nel mio caso, approcci troppo duri, troppo estremi e definitivi. Ad una persona che ha resistito alla malattia non solo con la chemio, ma soprattutto con la positività della mente, bhe’, concedeteglielo…
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