lunedì 30 giugno 2008

A Margaret...


Vivere una malattia, qualunque essa sia, ti fa toccare con mano la precarietà: dell'essere prima ancora che del corpo. Io sono convinta che per noi che siamo stati abituati a dover stare sempre bene ed essere sempre belli, produttivi, iperattivi, la malattia è uno stop che la vita ci mette di fronte per fare il punto, per riportarci alla dimensione dell'essere umani e soprattutto dell’essere mortali. Così che si ribalti la scala dei valori quotidiani ed il tempo, breve o lungo che sia concesso ancora, possa riacquistare il suo senso originario. Di contatto con sé stessi, con la natura, con gli altri.In occidente però, nella società del benessere e dell’essere sempre bene, la malattia arriva e solleva un concetto che non ci piace, che ci spaventa, che tira fuori la nostra responsabilità di vivere. Arriva e ti presenta l’altra faccia della vita: quella della morte. Non è molto diverso da ciò che, in Africa come in tutto il Terzo mondo, succede ogni giorno con la carenza di acqua e di cibo, con le guerre civili, con l'Aids. Laggiù, spesso, la morte è celebrata come una delle fasi naturali del ciclo vitale. Nella nostra civiltà e società la morte è invece rifiutata: io per prima l'ho rinnegata e tutt'ora – pur volendone parlare - continuo inconsciamente a farlo.


Perchè noi siamo - dentro la nostra mente - esseri immortali.
Così ci insegnano a credere. Così ci insegnano ad avere paura.


Ecco volevo che qualcun altro mi aiutasse a riflettere su ciò. Così l’ho chiesto ad una amica e collega giornalista che, a differenza mia, l’Africa l’ha voluta conoscere di persona e da volontaria.

Si chiama Francesca Bellemo, ha 26 anni e scrive da Mestre…


“L’estate scorsa mi trovavo in Kenya, in visita ad una realtà missionaria negli altipiani a nord di Nairobi, a Ol Moran. Lì incontrai Margaret. Una donna di mezza età malata di tumore osseo. Era giunta alla fase terminale della sua malattia. I suoi familiari, che la accudivano con amore, dicevano che soffriva molto per i dolori. Quel giorno insieme a Sister Alice, una suora trentenne di origine filippina che fa la missionaria lì, entrai nella sua casa fatta di fango. Era molto dignitosa: una casetta di campagna, i campi coltivati a mais bianco, gli animali nel cortile polveroso, una cisterna dell’acqua dietro alla casa. Era il tramonto e c’era una luce splendida. Entrammo nella stanza buia in cui Margaret era costretta al letto. Sua sorella Elisabeth le stringeva la mano e si respirava un clima di serenità surreale. Se sembra un’ingiustizia essere colpiti da un tumore in Italia, figuriamoci in Africa. Non dimenticherò mai la piaga di decupito che quella donna aveva sulla schiena e il suo sorriso. Non faceva che benedirci per averle fatto visita. Diceva che quando qualcuno va a farle visita i dolori le spariscono. Nella totale assenza di qualsiasi tipo di medicina quella donna era capace di sorridere per l’incontro con delle persone. Tiziana, una mia compagna di viaggio, le regalò il suo rosario. Pochi mesi dopo, una volta rientrata a casa, a Mestre, ricevetti una mail da parte dei missionari di Ol Moran che mi informavano della morte di Margaret. Tra le sue mani avevano riposto anche il rosario di Tiziana. Ho ripensato a questo episodio leggendo il libro di Milena “Mi riprendo il biglietto. Un nuovo cielo dopo la chemio”, perché ho trovato nelle sue parole lo stesso coraggio del sorriso di Margaret. Una forza interiore di chi sa affrontare la malattia a testa alta, consapevole che la malattia può indebolire il nostro corpo, ma non può nulla sulla nostra anima. Non penso si possano fare confronti tra le sofferenze, perché ognuno di noi vive il suo dolore personale, e per ciascuno di noi il nostro dolore sembra essere il peggiore. Però qualcosa dall’esempio di Margaret credo si possa imparare: la fede e l’affetto dei propri cari sono l’arma più vincente contro la vittoria di ogni malattia. Quella di Margaret è una storia che si è conclusa con la sua morte, quella di Milena con la sua guarigione. Ma non per questo mi sento di distinguere tra tragedia e lieto fine. La tragedia c’è quando chi soffre permette alla malattia di vincere sul proprio spirito. Il lieto fine c’è quando, indipendentemente dall’esito, l’anima è al sicuro.Questo è il più bell’insegnamento che una persona che ha vissuto una malattia come quella di Milena può testimoniare. Per questo credo sia importante il confronto, l’aprirsi, il raccontarsi.Perché è una lezione di vita preziosa per chiunque viva un’esperienza simile, ma soprattutto per coloro che sono sani.
Francesca


Quella che mi ha regalato per il mio blog, è una delle tante fotografie di un paese, il Kenya, che Francesca ha conosciuto e che ha voluto immortalare in un libro. Ben fatto. Con testo inglese a fronte, con flash documentati e ben descritti su ogni aspetto del vivere keniota.
SULLA VIA DI OL MORAN
di Francesca Bellemo
Ed. CID
pag.160
prezzo: 28€

Foto: Francesca assieme ad una bambina keniota e la copertina del suo libro http://digilander.libero.it/fbellbra/

1 commento:

Anonimo ha detto...

Ciao Francesca molto bello quello che hai scritto, e anche quello che fai. Ciao. Ho visto anche la tua intervista. Complimenti per tutto